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giovedì 10 dicembre 2015

Una giornata nel quartiere cinese di Prato

"Non sei stata ancora in Cina, porterò la Cina da te". E così, in una giornata afosa di agosto, talmente calda che sembrava di percepire per la prima volta la catastrofe dell'effetto serra,  con occhi da turista, stupiti, indagatori, interessati, ci siamo ritrovati a passeggiare per il quartiere cinese di Prato. 
Lungo via Pistoiese si sviluppa la seconda Chinatown d'Europa, una città nella città (o fuori dalla città), rumorosa e disordinata, ricca di odori di ogni genere che ristagnavano nel caldo umido, attiva e brulicante nella calura di ferragosto, quando tutto il resto del mondo si ferma.

I primi cinesi a stabilirsi nella zona arrivavano dallo Zhejiang, provincia orientale della Cina, in particolare dalla città di Wenzhou, luogo d'origine di molti degli immigrati cinesi in Italia. Erano gli anni '80 e, sulla scia della Riforma e Apertura di Deng Xiaoping, l'emigrazione di massa aumentò considerevolmente. Gli immigrati cinesi si stabilirono inizialmente a Campi Bisenzio, nell'area metropolitana di Firenze e si inserirono nel settore della pelletteria come subfornitori delle imprese locali. Con la crescita della comunità cinese aumentò, tuttavia, anche l'ostilità degli abitanti e molti cinesi si trasferirono nell'area di Prato dove occuparono gli spazi produttivi lasciati liberi dagli artigiani colpiti dalla crisi economica di metà anni '80. 
Le catene migratorie, tipiche dell'immigrazione cinese e l'aumento degli spazi di produzione favorirono la crescita della comunità cinese che, negli anni '90, concentrò la sua attività nel settore del pronto moda a cui diede un nuovo impulso. Molti, in questi anni, da subfornitori s trasformarono in imprenditori.
Con la crisi degli anni 2000 i rapporti della comunità cinese con gli italiani peggiorarono: all'ostilità dovuta alla crescita esponenziale della comunità di immigrati si aggiunsero le difficoltà della crisi che costrinsero molti imprenditori a chiudere i battenti delle fabbriche. Le imprese cinesi, tuttavia, sopravvivevano. I cinesi da risorsa divennero emergenza.

Il modello di economia cinese d'immigrazione è di tipo etnico: i titolari delle imprese sono cinesi che assumono unicamente connazionali. Non vi è, quindi, una reale integrazione con il territorio. L'autoghettizzazione delle comunità di immigrati non è un fenomeno nuovo, ma il fenomeno assume una portata maggiore se si parla di comunità cinesi. Nella cultura cinese, infatti, le relazioni familiari sono fondamentali, la famiglia allargata ha un'importanza molto maggiore di quanta ne abbia nella societò occidentale e i rapporti al suo interno sono improntati su rigidi principi morali di eco confuciana. 
Altrettanto fondamentali sono le guanxi, termine che indica la fitta rete di relazioni sociali, non solo e non necessariamente di natura amichevole, ma anche conoscenze, contatti, legami tenuti insieme da opportunistici scambi di favori. Le guanxi sono l'imprescindibile tessuto su cui si fonda la società e l'economia cinese in patria come all'estero.
Tali fattori cementano saldamente i legami all'interno della comunità, rendendola chiusa e diffidente verso l'esterno e, come si afferma in un rapporto Irpet del 2014 (Istituto Regionale Programmazione Economica della Toscana) hanno determinato, insieme ad un'alta propensione al lavoro,  la formazione di un distretto etnico all'interno di un distretto industriale. 
La sopravvivenza delle imprese cinesi in tempi di crisi è dovuta anche ai suddetti fattori insieme ad una diversa concezione del lavoro con turni lunghi, fabbriche in attività 24h/24 e a forme di illegalità quali l'evasione fiscale e contributiva.

Stando ai dati resi noti dall'Ufficio Statistica del comune di Prato, al 31/12/2014 i cittadini di cinesi residenti nel comune di Prato erano 15957 con un incremento dell'85% rispetto al 2005. La fascia d'età più presente, quella tra i 18 e i 64 anni. Dal novero sono esclusi i non residenti in possesso di un permesso di soggiorno e i clandestini; la presenza cinese nell'area è, quindi, da ritenersi molto maggiore rispetto ai dati del censimento ufficiale.  
Il contributo al PIL provinciale di una sì numerosa comunità è dell'11%, una fetta rilevante dell'economia locale.

La comunità cinese a Prato si concentra in larghissima parte lungo via Pistoiese, nel quartiere Macrolotto Zero, nella zona ovest della città. 
Arrivati alla stazione abbiamo preso un autobus per raggiungere il centro storico della città, silenzioso e semideserto nella calura di agosto, con il fascino che accomuna le città e  i borghi toscani dove il nuovo si inserisce rispettoso nel vecchio lasciando che ad emergere siano la sua eco e le sue impronte. Abbiamo attraversato Piazza del Duomo sotto il sole di mezzogiorno che si rifletteva, abbagliante, sulla pavimentazione in pietra e invano tentava di riscaldare le policromie bianche e verdi dei marmi del Duomo. 
Vagando per le viuzze del centro siamo giunti a Via San Vincenzo, una strada stretta incassata tra le pareti di una fila ininterrotta di  bassi monasteri. Il silenzio era irreale. Sembrava fosse un limbo, la silenziosa anticamera di un mondo diverso proprio fuori dalle antiche porte della città. Via Pistoiese era proprio lì di fronte, l'irreale proseguimento della stessa strada, il confine tra i due mondi annunciato da un minuscolo negozietto cinese di elettronica a ridosso della piccola porta

La prima cosa a colpirci imboccata via Pistoiese è stata la frenesia: pochi chilomentri più in là il centro storico semivuoto combatteva il caldo rallentando i movimenti, sedendosi e bevendo qualcosa di fresco alla ricerca di un filo d'aria fresca, molti negozi chiusi, le persiane e le serrande abbassate dicevano "Siamo in vacanza". In via Pistoiese tutto si muoveva, tutto tranne l'aria. Automobili e biciclette sfrecciavano, i negozi erano aperti e pieni, tutti procedevano spediti verso una direzione, tutti con la fretta di arrivarci, alcuni ci osservavano incuriositi mentre pigramente passeggiavamo incuranti di orari e mete. Condividevamo la pigrizia con gli avventori dei bar, gli stessi dovunque, lì in canottiera, birra in una mano e sigaretta nell'altra seduti su sedie di plastica messe alla rinfusa sul marciapiede a chacchierare. Voci, suoni ed odori riempivano l'aria in un caos sensoriale. 
In confronto all'ordine e alla pulizia del centro storico, il degrado del quartiere periferico sembrava ancora maggiore: strade sporche, cassonetti ingombri di spazzatura, giardini incolti. Niente di non già visto in altri quartieri periferici, le stanze sul retro di perfette boutique di lusso. 

Avevamo cercato un ristorante in internet e lì ci dirigevamo affamati mentre io un po' sognante pensavo ad osterie unte, di quelle di cui si legge nei libri, le uniche dove poter mangiare dei veri piatti tipici. Ma come riconoscerle se ci fossero state? Non ne abbiamo incontrate nel nostro percorso e forse non le avrei riconosciute, così tanto erano ammantate di ingenua fascinazione nella mia mente. Abbiamo mangiato in un ristorante al piano terra di un palazzone grigio in mezzo ad altri palazzoni, in uno slargo punteggiato da aiuole incolte. Una cameriera gentile e disponibile ci ha accompagnato al nostro tavolo, ha diretto il ventilatore verso di noi e ci ha portato due menù: uno classico, l'altro su un semplice foglio A4, in cinese con i piatti "più cinesi", poco richiesti dai clienti occidentali, ho pensato. Sul tavolo sia le bacchette sia le posate. Tutto sembrava dire:"Non badiamo all'apparenza, ma all'essenziale". E l'essenziale, il cibo, era ottimo, più vario e con sapori più decisi che negli altri ristoranti cinesi. Alla fine, il caffè, una perfetta sintesi di Oriente e Occidente.

Abbiamo continuato a passeggiare per le strade del quartiere, i movimenti lenti, gli occhi vispi ed attivi. Lungo la strada un cancello con un avviso delle autorità, probabilmente una delle fabbriche-dormitorio sotto sequestro
Sui muri e sui cassonetti, quasi ovunque, piccoli annunci di vario genere e ricorrente la parola 美女 meinü seguita da un numero di telefono. Letteralmente meinü vuol dire "bella donna",mmmmmein ma da ricerche in internet ho appreso che non era esattamente quello il significato del termine in quel contesto. Si trattava dei numeri di telefono di prostitute messi in modo informale a disposizione dei clienti. Un contatto diretto con i clienti, un modo anacronistico di comunicare nell'era di Internet. 

Nel pomeriggio abbiamo preso la via del ritorno, ripercorrendo le strade del quartiere cinese, passando davanti a vetrine che esponevano meravigliose torte decorate con draghi, abiti da sposa pacchiani, specialità culinarie. Ci siamo lasciati dietro la vivacità e la frenesia di un quartiere che si muoveva al ritmo della melodiosa cantilena della lingua cinese e che per essere compreso davvero avrebbe bisogno di molto più che una giornata.
A darci il benvenuto sull'altra sponda di un immaginario fiume, una vecchina alla finestra di uno degli ultimi palazzi di via Pistoiese che cantava "Romagna mia". Una canzone di un'altra regione, in un quartiere che sembrava appartenere ad un altro Stato. 
 
 























 








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